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Agile ha un problema (e lo sanno tutti)
Le retrospettive sono puntuali. I daily stand-up funzionano. Le user story sono scritte con cura. Ma i sistemi? Caotici. Incoerenti. Fragili.
Succede più spesso di quanto si ammetta: team Agile che, pur seguendo le cerimonie con disciplina, si trovano a costruire software che fatica a scalare, a integrarsi, a sostenere l’evoluzione futura.
Il motivo? L’assenza di un pensiero architetturale sistemico.
Non è una questione di ignoranza tecnica. Anzi. Spesso i team sono formati da professionisti esperti, aggiornati sulle pratiche emergenti, appassionati di clean code e automazione.
Il problema è culturale. Deriva da un’interpretazione miope dell’Agile come movimento anti-architettura. Una deviazione ideologica che ha trasformato il principio “responding to change over following a plan” in una scusa per non progettare nulla oltre il prossimo sprint.
Il falso mito dell’architettura “non Agile”
C’è una convinzione diffusa – in particolare tra chi ha ereditato l’Agile da corsi aziendali o implementazioni meccaniche – che architettura significhi waterfall.
Diagrammi infiniti. Decisioni astratte. Tempi lunghi. Responsabili che pensano ma non scrivono codice.
Una caricatura. L’architettura non è nemica dell’Agile, e non lo è mai stata.
Il manifesto Agile, se riletto con attenzione, non nega la necessità di un impianto architetturale. Semplicemente ridimensiona l’idea che il piano sia più importante della capacità di adattarsi.
Ma adattarsi non significa improvvisare.
E soprattutto: adattarsi non significa rinunciare a una visione sistemica, coerente e intenzionale dell’evoluzione tecnica di un prodotto o di una piattaforma.
Architettura emergente? Sì, ma non basta
Chi ha familiarità con l’Agile ben fatto conosce concetti come l’architettura emergente: l’idea che, lavorando con TDD, refactoring continuo e feedback rapidi, l’architettura evolva insieme al software.
È un concetto valido. Funziona. Ma solo entro certi limiti.
L’architettura emergente dà il meglio di sé in contesti ristretti: team piccoli, dominio ben circoscritto, sistemi poco interdipendenti. Quando invece si entra in ecosistemi complessi, con molteplici team, legacy da integrare, requisiti non funzionali critici (scalabilità, sicurezza, compliance), la sola emergenza non basta.
Serve intenzionalità.
Serve architettura intenzionale.
Quella che non si oppone al cambiamento, ma lo rende possibile senza disintegrare la coerenza del sistema.
Quella che definisce principi guida, strutture fondamentali, scenari di evoluzione, e lascia che i dettagli emergano sprint dopo sprint, ma dentro un quadro di riferimento.
L’assenza di architettura non rallenta l’Agile. Lo condanna
La narrativa dominante dice che pensare troppo all’architettura rallenta la delivery.
È vero il contrario.
I problemi architetturali trascurati nelle fasi iniziali non si dissolvono: si accumulano. E più il sistema cresce, più si incistano nel codice, negli ambienti, nelle API.
A quel punto anche la più brillante organizzazione Agile inizia a vacillare: ogni nuova feature diventa dolorosa, ogni refactoring rischioso, ogni decisione un compromesso.
Così la velocità promessa diventa illusoria. La produttività cala. La qualità percepita dal business si deteriora. Il morale dei team si abbassa. E il CTO inizia a sentire sulla pelle quella strana sensazione di aver “perso il controllo”.
Non per colpa dell’Agile. Ma per come l’Agile è stato interpretato e implementato.
Architettura non è un ruolo. È una pratica diffusa
C’è un altro equivoco da chiarire: architettura non significa avere un architetto.
O meglio: non solo.
L’architettura è un atto collettivo. Non va confinata a un ruolo isolato che decide tutto in anticipo. Deve essere parte integrante del modo in cui i team pensano, discutono e progettano.
Certo, servono figure di riferimento – chiamatele solution architect, platform lead, staff engineer – che tengano il filo conduttore. Ma il vero salto di qualità arriva quando l’intera organizzazione assume un mindset architetturale.
Quando i team fanno design tecnico esplicito, usano modelli condivisi, valutano le decisioni secondo principi noti, tengono conto dei vincoli del sistema più ampio.
In questo senso, l’architettura è un linguaggio da coltivare. Non un deliverable da delegare.
Serve uno spazio prima del fare
Molte aziende stanno riscoprendo l’importanza di una fase iniziale – breve, concreta, non burocratica – per riflettere sull’architettura prima di iniziare a costruire.
Una fase che non nega l’Agile, ma lo prepara.
Un tempo per capire i vincoli, definire i confini delle responsabilità, valutare le opzioni infrastrutturali, scegliere pattern architetturali coerenti con il contesto.
Una sorta di Sprint Zero architetturale, in cui si lavora insieme – tech leader, product, stakeholder – per porre basi solide su cui l’Agile possa prosperare.
È qui che si gioca la differenza tra progetti che crescono in modo sano, e progetti che diventano Frankenstein digitali impossibili da mantenere.
Non basta fare Agile. Serve pensare sistemico
L’Agile non è un fine. È un mezzo.
E come ogni mezzo, funziona solo se è al servizio di una direzione chiara.
L’architettura è quella direzione. Non nel senso di un piano rigido e immodificabile. Ma come cornice evolutiva in cui il cambiamento ha senso.
Oggi, in un mondo dove i sistemi si integrano, i dati si moltiplicano, l’AI entra ovunque e la complessità cresce, fare Agile senza architettura significa andare veloci… verso un muro.
Chi guida oggi la tecnologia ha il dovere di riscoprire il valore dell’architettura. E di farne un alleato dell’Agile, non un feticcio del passato.
Chi si sta interrogando su come progettare sistemi scalabili e sostenibili nel tempo, può trovare spunti operativi e confronti reali nei confronti periodici del Tech Leaders Club, dove affrontiamo sfide concrete di architettura, evoluzione piattaforme e organizzazione tecnica.