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Nel mondo della tecnologia si parla spesso di innovazione, velocità, efficienza. Molto meno di ciò che resta invisibile: l’impatto ambientale dell’IT.
In un’epoca dominata dall’AI generativa e dalla scalabilità senza limiti, ci siamo forse dimenticati che “il cloud” è fatto di ferro, rame, plastica, energia e… litri d’acqua potabile.
Ho affrontato questo tema con Ilaria Pigazzini, CEO e co-founder di Arcan, una startup italiana nata dalla ricerca accademica e acquisita nel 2023 da TXT Group, realtà internazionale dell’ingegneria software.
Ilaria ha condiviso con lucidità e passione una riflessione coraggiosa sul rapporto tra tecnologia, sostenibilità e responsabilità.
L’epifania del server in mansarda
Il punto di svolta per Ilaria arriva all’inizio dell’avventura imprenditoriale: il co-founder di Arcan installa un server domestico per sostenere le attività iniziali della startup.
L’aumento della bolletta e l’esigenza di raffreddamento con aria condizionata rendono immediatamente tangibile quanto sia fisico il mondo del software.
È una verità scomoda che dimentichiamo troppo facilmente: ogni linea di codice ha un impatto materiale. E quando il software scala, lo fanno anche i consumi.
I numeri che non ci dicono (ma dovremmo sapere)
Secondo le stime più accreditate, nel 2023 il settore ICT ha consumato 1.000 terawattora di elettricità: più dell’intera Gran Bretagna. Solo i data center statunitensi assorbono il 4,4% del consumo elettrico nazionale. E circa la metà di quell’energia serve per il mining di criptovalute.
Ma l’energia è solo metà del problema.
L’elefante nella stanza: l’acqua
I data center sono energivori, ma anche idrovori. L’Università di Berkeley ha stimato che un data center medio consuma 1.135.000 litri d’acqua al giorno. L’equivalente del fabbisogno domestico di 100.000 abitazioni.
L’acqua serve a raffreddare i server, ma è spesso potabile e arricchita con sostanze chimiche per evitare corrosioni.
In alcune aree del mondo – come la provincia olandese del Nord Holland – la costruzione di nuovi data center si scontra con situazioni di siccità estiva e carenza idrica per la popolazione.
Il paradosso? Le aziende tech non sono tenute a dimostrare l’impatto ambientale delle loro strutture, a differenza di chi vuole ristrutturare casa in zona a rischio idrogeologico.
L’intelligenza artificiale è (anche) un problema ambientale
La AI non è solo una sfida etica o lavorativa. È anche una questione ecologica. Ogni singola query a GPT-4 comporta 4,2 grammi di CO₂, il doppio di una ricerca Google. Il training iniziale dei modelli è estremamente energivoro, e lo è anche la loro inferenza continua.
Secondo alcune stime, OpenAI spende una parte significativa del proprio fatturato solo in energia elettrica.
E per sostenere la crescita esponenziale del settore servono infrastrutture che spesso vengono pagate – direttamente o indirettamente – dai cittadini. Il caso dell’Ohio, dove i contribuenti copriranno le spese non assunte dalle big tech, è emblematico.
Green IT: oltre il greenwashing
Cosa possiamo fare? La risposta non può essere solo nei numeri dichiarati dai provider cloud. Se da un lato esistono metriche come il PUE (Power Usage Effectiveness) e il WUE (Water Usage Effectiveness), la trasparenza è ancora limitata. Solo Microsoft dichiara i suoi dati WUE. Google e Meta no.
Serve una cultura diversa. Ed è qui che entra in gioco il concetto di Green IT: non solo rendere più sostenibili le infrastrutture, ma progettare software che consumi meno energia e meno risorse, già dalla prima riga di codice.
Qualità, debito tecnico e sostenibilità: un legame forte
Arcan lavora proprio su questo. Analizza il codice per misurare l’impatto dei cambiamenti, anticipare i bug, ottimizzare i test. Ridurre il debito tecnico significa ridurre anche il consumo energetico. Non è solo un tema di performance: è una questione ambientale.
Strumenti come CodeCarbon permettono di stimare il footprint di CO₂ del codice, soprattutto in ambito machine learning. Ottimizzare le pipeline CI/CD, ridurre codice ridondante, scrivere meno righe e più efficienti, usare il cloud in modo intelligente – sono tutte leve concrete.
Una nuova etica per il tech
Ilaria ha sottolineato come manchi, oggi, un’educazione diffusa all’etica della tecnologia. Lo si vede già nei percorsi universitari, dove corsi su etica e impatto ambientale sono ancora opzionali o relegati al post-laurea.
Ma il tempo dell’ingenuità è finito. Come tech leader abbiamo il dovere di considerare l’impatto sistemico delle soluzioni che costruiamo.
Conclusione: prima ci pensi, meno piangi dopo
La qualità, dice Ilaria, deve essere by design. Vale anche per la sostenibilità. Se la progettiamo sin dall’inizio, possiamo evitare danni futuri. Altrimenti non basteranno metriche, dichiarazioni di intenti o offset di CO₂ per compensare ciò che avremo ignorato per troppo tempo.
Il Green IT non è una moda. È l’unica strada percorribile per un tech che voglia essere davvero innovativo.
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