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Il declino dell’Agile come religione aziendale
Agile, per come viene praticato oggi in molte aziende italiane, è morto. O meglio: è morto il culto di Agile. Quello fatto di rituali meccanici, parole vuote e pratiche adottate senza comprenderne il senso. Paradossalmente, è proprio abbandonando queste liturgie che alcuni team stanno iniziando a lavorare meglio.
La morte di Agile non è un fallimento del metodo. È il sintomo di un fraintendimento profondo. Abbiamo trasformato un mindset rivoluzionario in un processo da checklist. E l’abbiamo fatto talmente bene da non accorgerci che ci stavamo allontanando sempre di più da ciò che Agile voleva realmente essere.
Agile come performance teatrale
In troppe organizzazioni, Agile si è ridotto a una sceneggiatura. Ogni giorno si apre il sipario:
- Daily stand-up da 15 minuti in cui nessuno ascolta davvero.
- Sprint planning dove le stime servono più a difendersi che a pianificare.
- Retrospettive con post-it colorati e zero cambiamenti reali.
- Lavagne kanban aggiornate solo per fare bella figura con il management.
Il problema non è la cerimonia in sé. Il problema è la recitazione. Quando lo scopo diventa “fare Agile” invece che “essere agili”, il risultato è una routine sterile. Una comfort zone che illude il management e frustra i team.
Il vero Agile è morto? No, lo stiamo solo riscoprendo altrove
Mentre il finto Agile prospera in meeting senza scopo, i principi autentici di agilità stanno trovando nuova vita… fuori dal perimetro dei framework. In team che:
- Tagliano il superfluo e comunicano in modo diretto.
- Validano rapidamente le ipotesi, senza aspettare la fine dello sprint.
- Collaborano cross-funzionalmente, senza barriere tra business, design e tech.
- Misurano l’impatto sul cliente, non l’aderenza al processo.
Questi team non si dichiarano “Agile”, eppure incarnano l’agilità più di tanti SAFe certified. Perché hanno capito che la vera sfida non è adottare un framework, ma costruire un’organizzazione che reagisce al cambiamento e crea valore in modo continuo.
Tre indicatori che stai recitando Agile (e non praticandolo)
- Le retrospettive sono sempre uguali. Nessuna tensione, nessuna decisione. Solo il giro di opinioni, poi tutti a pranzo.
- Il Product Owner è un proxy. Non decide nulla, fa da passacarte tra business e team.
- Il “done” non arriva mai in produzione. Le storie sono “finite” ma il cliente non le vede mai. E nessuno sembra preoccuparsene.
Quando questi segnali diventano la norma, non sei più in un’organizzazione agile. Sei in un teatro, e il pubblico (il business) ha già smesso di crederci.
Tornare ai principi, non al vocabolario
Il Manifesto Agile parla chiaro: individui e interazioni più che processi e strumenti, software funzionante più che documentazione esaustiva, collaborazione col cliente più che negoziazione dei contratti, risposta al cambiamento più che seguire un piano.
Oggi, in molti ambienti, non si salva nemmeno il vocabolario. La parola “agile” è usata per giustificare l’assenza di strategia, la sovraesposizione ai cambiamenti o la rinuncia alla pianificazione. “Siamo agili” diventa la scusa per fare tutto all’ultimo momento, senza priorità né ownership.
Il vero ritorno all’agilità passa da qui: rimettere il business al centro, il cliente sul radar e il team nelle condizioni di reagire in modo autonomo e competente.
Agile senza etichetta: quando funziona davvero
Le organizzazioni che lavorano meglio oggi non sono quelle che adottano pedissequamente Scrum, SAFe o Kanban. Sono quelle che:
- Semplificano la governance e chiariscono le responsabilità.
- Danno ai team reali margini di manovra e di dialogo con il business.
- Mettono a fuoco pochi indicatori chiave, orientati al valore.
- Operano con cicli brevi, feedback rapidi e una forte tensione al risultato.
In questi contesti, non serve chiamarsi “agile”. Serve esserlo. Ed è proprio da questo approccio disilluso ma efficace che molte aziende stanno traendo nuova linfa.
L’agilità post-Agile
Forse è giunto il momento di liberarci dell’etichetta “Agile” per tornare all’essenza: iterare, imparare, adattarsi. Non serve un framework, serve lucidità organizzativa. Serve leadership. Serve un modello che riconosca la complessità senza nascondersi dietro l’ennesimo tool.
Il futuro dell’agilità non è nei certificati, nei backlog infiniti o nei daily su Zoom. È nella capacità di creare valore reale, velocemente, in contesti in continua evoluzione.
Chi riesce in questo, ha già seppellito Agile – e ne ha fatto qualcosa di molto più utile.
Per approfondire questi temi, esplora le puntate del podcast Pionieri del Tech o entra nella community Tech Mastermind per confrontarti con chi l’agilità la pratica davvero.