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In Italia, 6 progetti digitali su 10 non raggiungono gli obiettivi per cui sono nati.
Parliamo di e-commerce che non convertono, CRM usati dal 10% del team, portali utenti mai lanciati o rifatti ogni due anni.
Ma cosa distingue le aziende che falliscono da quelle che riescono a digitalizzarsi in modo solido e duraturo?
In questo articolo analizziamo il problema a monte, prima ancora della scelta dei software e dei fornitori. Perché il vero discrimine tra successo e fallimento digitale avviene nelle primissime fasi di impostazione progettuale.
I numeri (reali) del fallimento digitale
Il dato del 63% può sembrare allarmante, ma non è isolato. Secondo uno studio congiunto del MIT e Capgemini, l’84% delle iniziative di trasformazione digitale fallisce a livello globale, per lo più a causa della scarsa adozione interna, della debolezza metodologica e dell’assenza di una governance efficace.
Nel contesto italiano, la situazione si complica ulteriormente. L’indice DESI (Digital Economy and Society Index) colloca regolarmente l’Italia nelle ultime posizioni in Europa per digitalizzazione delle PMI, con punteggi critici su aspetti come integrazione delle tecnologie digitali, capitale umano e digitalizzazione dei processi aziendali.
Da questo scenario emerge una tendenza coerente: molte aziende iniziano progetti digitali senza una vera strategia, senza un’architettura progettuale e senza una guida trasversale.
Il paradosso della digitalizzazione senza direzione
C’è un paradosso che attraversa molte PMI: il desiderio di innovare è alto, ma la comprensione di come farlo è spesso frammentaria.
Si tende a partire dallo strumento (“ci serve un nuovo gestionale”, “serve un’app mobile”, “facciamo un portale clienti”), senza un’analisi strutturata delle esigenze, degli obiettivi e dei vincoli.
Di conseguenza:
- i progetti vengono affidati direttamente a team tecnici o agenzie, senza un vero brief strategico;
- gli stakeholder non sono coinvolti nelle fasi iniziali;
- l’adozione interna viene data per scontata;
- la valutazione dei risultati si limita al “funziona o no?”, non all’impatto sul business.
E quando ci si accorge che “non funziona”, si è già troppo avanti per correggere la rotta senza costi aggiuntivi, ritardi o rifacimenti.
Cosa fanno invece le imprese che crescono davvero?
Chi riesce a ottenere risultati solidi da iniziative digitali ha un tratto distintivo: non parte mai dallo sviluppo, ma dal disegno strategico.
In altre parole, affronta la digitalizzazione come un processo di progettazione aziendale, non solo tecnologica.
Tre buone pratiche ricorrenti:
1. Chiarezza degli obiettivi e coinvolgimento degli stakeholder
Le aziende più solide chiariscono da subito il “perché” del progetto, definendo metriche di successo e coinvolgendo fin dall’inizio tutte le funzioni interessate. Non esistono progetti digitali “IT-only”.
2. Analisi preventiva e validazione dei requisiti
Prima di scegliere piattaforme o architetture, si costruisce una mappa dei requisiti reali, si analizzano i processi esistenti, si stimano costi e impatti. Questa fase, spesso trascurata, è in realtà il cuore del progetto.
3. Progettazione progressiva, non reattiva
Invece di passare direttamente dallo “sprint 1” alla produzione, le imprese lungimiranti prevedono una fase zero: un ciclo breve ma strategico in cui vengono definiti obiettivi, priorità, architettura di massima e piano d’azione. Solo da lì si parte davvero.
La fase zero che manca nella maggior parte dei progetti
Molti progetti falliscono semplicemente perché non esiste una fase di impostazione strutturata. Tutto parte da un’idea o un’urgenza (“ci serve qualcosa”) che diventa immediatamente esecuzione, bypassando ogni forma di validazione.
Eppure, ogni impresa digitale matura – dalle big tech alle startup ben gestite – affronta una fase iniziale in cui non si sviluppa nulla, ma si decide tutto:
roadmap, vincoli tecnici, priorità di business, mappatura dei processi, analisi dei rischi, stakeholder coinvolti, budget realistico.
Non serve un framework rigido, ma serve un processo di progettazione consapevole prima di iniziare a scrivere codice o acquistare software.
Questa è la differenza tra una piattaforma digitale che diventa un asset competitivo e un progetto che si arena dopo sei mesi di confusione operativa.
Una questione di metodo, non di taglia aziendale
Spesso si pensa che solo le grandi aziende possano permettersi questo tipo di approccio. In realtà, è proprio nelle PMI che la fase iniziale di progettazione è ancora più decisiva, perché le risorse sono limitate, i margini di errore minimi e l’impatto sul business immediato.
Non servono team da 20 persone o budget milionari. Servono metodo, lucidità e capacità di mettere in fila le decisioni strategiche prima di lanciarsi nella tecnologia.
In un’epoca in cui l’adozione tecnologica è un obbligo competitivo, il modo in cui si parte è il vero fattore critico.
Le organizzazioni che riescono a scalare digitalmente hanno una cosa in comune: prima di sviluppare, si fermano a progettare. Sempre più aziende adottano uno sprint di impostazione iniziale per costruire basi solide, prima ancora di scegliere strumenti o fornitori.
Per altri approfondimenti sui modelli organizzativi e le scelte architetturali delle aziende digitali italiane, esplora le interviste di Pionieri del Tech o iscriviti al Tech Leaders Club, dove ogni mese discutiamo casi reali e soluzioni operative.