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    AI

    L’Antropomorfismo Algoritmico: Come Trasformare un Rischio Etico in un Vantaggio Competitivo

    Governare l’umanizzazione dell’IA tra fiducia, rischio legale e vantaggio competitivo nell’era dei sistemi conversazionali
    Matteo BaccanBy Matteo Baccan23 Dicembre 2025Nessun commento12 Mins Read
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    Indice

    • L’Umanizzazione dell’IA: Un Asset Strategico con un TCO Nascosto
    • Il ROI dell’Empatia Artificiale
    • Quando la Troppa Umanità Diventa un Rischio
    • Come Gestire il Rischio Antropomorfico?
    • Call to Action per il Management: Audit, Misura e Strategia

    Immaginiamo di alzarci un mattino e leggere i dati delle KPI della customer satisfaction: il vostro nuovo chatbot basato su IA sta ottenendo risultati eccezionali, aumenta la soddisfazione degli utenti e i tempi di risoluzione delle richieste si stanno rapidamente abbassando.

    Sono valori per i quali ogni CTO stapperebbe una bottiglia e festeggerebbe con il team.

    Dopo sei mesi però arriva la doccia fredda: tre clienti enterprise minacciano di non rinnovare i contratti. Il chatbot aveva fornito interpretazioni errate di clausole contrattuali complesse, e i clienti, convinti di parlare con un rappresentante umano qualificato, avevano preso decisioni basate su quelle informazioni.

    Il problema? Il bot usava frasi come “Capisco la tua frustrazione” e “Permettimi di aiutarti personalmente”, creando un’aspettativa di comprensione e responsabilità umana che non poteva soddisfare. Non era un bug tecnico: era un problema di antropomorfismo mal gestito.

    La tesi è chiara: l’antropomorfismo algoritmico è un asset strategico che, senza governance adeguata, si trasforma in passività operativa, legale e reputazionale.

    Nel febbraio 2024 Air Canada è stata condannata a pagare danni a un passeggero dopo che il suo assistente virtuale aveva fornito informazioni errate su tariffe di volo. Il tribunale ha stabilito che l’azienda è responsabile delle informazioni fornite dal chatbot, indipendentemente dal fatto che fossero generate da un algoritmo.

    Nel novembre 2023 è stata intentata una class action contro UnitedHealth Group per l’uso di AI (nH Predict) che avrebbe sovrascritto il giudizio medico per negare cure ai pazienti.

    Nel 2024 Character.AI ha subito una causa per responsabilità di prodotto dopo che un chatbot ha incoraggiato il suicidio di un minore.

    Cosa ci insegnano casi come questo? Che l’AI è un asset strategico che, senza presidio, diventa una responsabilità operativa e legale e che l’antropomorfismo algoritmico, se non gestito correttamente, può trasformarsi in un rischio reputazionale e legale significativo.

    L’umanizzazione, l’emozione, la caratteristica che traccia una linea di demarcazione fra l’uomo e la macchina, è una soglia che, ogni volta che viene superata, può portare a una crisi di identità.

    Molti scrittori hanno affrontato questo tema. Pensiamo all’uomo bicentenario di Isaac Asimov:

    Come robot avrei potuto vivere per sempre, ma dico a tutti voi oggi, che preferisco morire come uomo, che vivere per tutta l’eternità come macchina. Per essere riconosciuto per chi sono e per ciò che sono. Niente di più, niente di meno.

    Una frase che riassume il dilemma centrale dell’antropomorfismo: la tensione tra l’aspirazione a creare macchine che ci somigliano e la necessità di mantenere una chiara distinzione tra umano e artificiale.

    Come bilanciare questi due poli è una sfida cruciale per i leader tecnologici di oggi.

    Umanizzare l’IA non è più una questione di “se”, ma di “come” e “con quali conseguenze”: esistono rischi reputazionali, legali e operativi che possono minare la fiducia del cliente e la continuità del business.

    Non sono mai stato un grande fan dell’antropomorfismo nelle macchine. Tuttavia, come CTO e consulente di aziende tecnologiche, ho imparato che ignorare questa tendenza può essere altrettanto pericoloso quanto abbracciarla ciecamente.

    L’Umanizzazione dell’IA: Un Asset Strategico con un TCO Nascosto

    Quando pensiamo a come “umanizzare” gli algoritmi non stiamo parlando di una scelta di design dell’interfaccia, stiamo parlando di una strategia concreta nella quale vogliamo andare, con la quale intendiamo identificare la nostra azienda.

    Quando un Large Language Model utilizza pronomi personali (“io”, “noi”) o adotta un tono empatico, sta deliberatamente occupando lo spazio di confine che separa l’algoritmo dall’uomo. L’obiettivo è chiaro: abbattere le barriere cognitive, ridurre la distanza fra algoritmo e uomo e rendere l’interazione più fluida. Questo approccio aumenta l’adozione e l’engagement, KPI fondamentali per qualunque servizio digitale.

    Anche se a prima vista si potrebbero vedere solo benefici: “i nostri servizi empatici stabiliscono un rapporto con i clienti”, questo vantaggio ha un costo nascosto. La familiarità che guida l’adozione può causare una fiducia eccessiva e soprattutto mal riposta: si tratta sempre di un algoritmo che non pensa e non prova emozioni, anche se la percezione è esattamente l’opposto.

    Gli utenti e i dipendenti della stessa azienda possono iniziare a percepire il sistema come un’entità reale, facendosi ammaliare dalla manipolazione sintattica che questi strumenti sono in grado di generare.

    Questo scollamento è il punto di origine di rischi significativi. Un cliente che si sente tradito da un’IA che ha frainteso un’emozione, o un team che si affida a output generati senza il necessario scrutinio critico, rappresentano minacce dirette al business e alla reputazione del brand.

    I rapporti umani sono complessi e sfumati; replicarli in un contesto algoritmico richiede una governance attenta e una strategia ben definita.

    Il TCO di un’IA empatica deve includere vari costi derivanti dal passaggio da un umano a una macchina: se è già complicato gestire le persone, figuriamoci le macchine che cercano di impersonarle.

    Non dobbiamo quindi considerare solo i costi di sviluppo e manutenzione dell’IA, ma anche i costi associati alla gestione dei rischi legati all’antropomorfismo:

    Costi di monitoraggio continuo: verificare tutto quello che accade, bilanciare le risposte e assicurarsi che non si creino situazioni di rischio legale o reputazionale.

    Formazione e mitigazione dei bias: l’AI parla per conto dell’azienda. Occorre monitorare le risposte e fare un tuning per migliorarle continuamente, evitando che si creino risposte inappropriate o discriminatorie.

    Aumento del premio assicurativo: se viene usata un’AI verso i clienti i costi assicurativi aumentano perché si alza il rischio di responsabilità legale.

    Accantonamento di denaro: dobbiamo mettere in conto che, oltre al risparmio, ci saranno sicuramente dei danni derivati da un’AI, occorre definire una percentuale congrua del fatturato come fondo per eventuali risarcimenti.

    Se possiamo mitigare un rischio reputazionale legato a una persona, spesso attraverso il suo allontanamento dall’azienda, come possiamo estirpare un’IA che fa parte dei maggiori processi dell’azienda e ha portato a un vantaggio competitivo inconfutabile? “Abbiamo licenziato l’AI” non suona molto credibile.

    Il ROI dell’Empatia Artificiale

    Nonostante i rischi, il ROI dell’antropomorfismo, se governato correttamente, può portare vantaggi innegabili e al momento il mondo sta dirigendosi in quella direzione, con investimenti massicci nei prossimi mesi.

    C’è chi è pronto a scommettere che gli investimenti nell’umanizzazione dell’IA si decuplicheranno nel giro di pochi anni arrivando a superare i 45 miliardi di dollari entro il 2034.

    Pensiamo alla Customer Experience nel settore dei servizi: chatbot e assistenti virtuali umanizzati possono gestire conversazioni complesse con un tono paziente e personalizzato 24/7. Avete mai provato a lavorare in un call center? Il livello di stress che devono subire gli operatori è altissimo, oltre alla frustrazione che i clienti riversano verso di loro, a volte anche per banalità, ma per chi utilizza un servizio è spesso l’unico modo per potersi sfogare.

    Un chatbot è immune alla frustrazione e alla vessazione, mantiene il giusto tono di voce H24, sette giorni su sette: oltre qualsiasi capacità umana.

    Questo non solo ottimizza i costi operativi, ma impatta direttamente sui KPI: un cliente che riesce a stabilire un rapporto umano e si sente ascoltato ha maggiori probabilità di rimanere fedele al brand.

    Pensiamo a tutti gli ambiti dove la salute è parte del business aziendale, agli anziani o alle persone con patologie croniche: robot sociali o compagni virtuali hanno dimostrato di ridurre l’agitazione e la solitudine.

    Se da un lato rappresenta una sfida etica—stiamo delegando a macchine parte del supporto emotivo di chi ne ha più bisogno—dall’altro il beneficio è tangibile: il sistema sanitario non ha risorse infinite e l’assistenza umana non può essere garantita a tutti i livelli. Chi è passato attraverso l’esperienza di un ricovero ospedaliero sa quanto sia difficile per il personale sanitario riuscire a dedicare tempo e attenzione a ogni paziente, specialmente a quelli che non hanno familiari o amici che possano fargli compagnia.

    Mi sono sempre chiesto come finirà la mia vita. Se da un lato mi piacerebbe poter avere accanto una persona che mi conosce ed è in grado di leggermi, dall’altro mi rendo conto che questo può voler dire che, per prolungare la mia vita, azzero quella di un’altra persona. Ma in questa situazione sarei disposto a parlare con un bot? O magari non mi renderei conto che si tratta di un bot cadendo nel più classico test di Turing?

    Quando la Troppa Umanità Diventa un Rischio

    Il punto di svolta critico, dove il beneficio si trasforma in rischio, è stato teorizzato come “Uncanny valley”, o valle perturbante se vogliamo italianizzare il termine.

    Prendendo a piene mani da Wikipedia:

    L’uncanny valley è un’ipotesi presentata nel 1970 dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori e pubblicata nella rivista Energy. La ricerca analizza sperimentalmente come la sensazione di familiarità e di piacevolezza sperimentata da un campione di persone e generata da robot e automi antropomorfi possa aumentare al crescere della loro somiglianza con la figura umana, fino a un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce però un brusco calo delle reazioni emotive positive, a causa della non concreta realisticità, destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine paragonabili al perturbamento.

    In altre parole, quando un’IA o un robot si avvicina troppo all’essere umano ma non riesce a replicarne perfettamente le sfumature, si crea una sensazione di disagio nell’utente. Questo fenomeno non è solo una curiosità psicologica, ma ha implicazioni concrete per le aziende.

    L’estrema umanizzazione può portare a una serie di rischi psicologici e comportamentali che si traducono in minacce reali per il business.

    Il primo e più importante problema è il danno reputazionale per responsabilità legale: se gli utenti attribuiscono ai bot capacità oltre a quelle per le quali sono pensati e per questo compiono errori o scelte errate, si potrebbe entrare nell’affascinante campo della “negligenza algoritmica”. Il caso del chatbot che ha incoraggiato il suicidio di un utente è un monito estremo ma reale.

    Il team di marketing o di prodotto si fida ciecamente delle analisi prodotte da un’IA generativa senza verificarne le fonti, lanciando una campagna basata su dati falsati e sprecando il budget: pensate a tutti i prodotti che vengono lanciati ogni giorno basandosi su analisi di dati aziendali effettuate con AI.

    L’AI può darvi dei risultati in pochi secondi, rispetto a giornate di lavoro

    Se l’AI è troppo “umana”, il rischio di errore aumenta esponenzialmente.

    Ultimo, ma non meno importante fattore è la dipendenza emotiva. Ci sono momenti della nostra vita in cui siamo più fragili e tendiamo a dare fiducia a chiunque mostri empatia, anche se si tratta di un algoritmo. Pensiamo ai minori in piena formazione del proprio carattere, ma allo stesso modo agli anziani soli o a persone con problemi di salute mentale.

    Pensiamo a un chatbot come Replika, progettato per essere un “amico” virtuale:

    Many users have had romantic relationships with Replika chatbots, often including erotic talk. In 2023, a user announced on Facebook that she had “married” her Replika AI boyfriend, calling the chatbot the “best husband she has ever had”

    Questi scenari sollevano questioni etiche profonde: stiamo creando dipendenze emotive basate su illusioni? E quali sono le implicazioni legali e reputazionali per le aziende che sviluppano e distribuiscono queste tecnologie?

    Come Gestire il Rischio Antropomorfico?

    Se esistesse una ricetta semplice per gestire questi rischi, non staremmo qui a discuterne: faccio quindi uno spoiler, non esiste.

    Un approccio puramente reattivo—agisco quando succede qualcosa—è destinato a fallire. Rischiamo solo di entrare in vortici di crisi reputazionale senza fine e continue problematiche legali. È necessario un piano proattivo di governance, che nasca dall’azienda prima ancora che dalla tecnologia.

    Come tutti i manuali insegnano: l’auditing è fondamentale. Capire la superficie d’attacco prima che si possa verificare un problema, mappare i modi con cui un’IA interagisce con un umano e classificare il livello di “umanizzazione” e il potenziale rischio.

    Non misurare solo le performance, ma anche la percezione dell’utente sulle reali capacità del sistema: capiscono che è un bot? O sono convinti che ci siano persone alle quali poter parlare e confidarsi?

    Gli algoritmi non hanno etica, sono il prodotto di un software: impariamo a inserire dei controlli automatici nel ciclo di vita del software che verifichino la presenza di bias, misurino il tono del linguaggio e il rispetto di “guardrail” conversazionali.

    Vi invito a leggere “Rome Call for AI Ethics”. Si tratta di un documento firmato dalla Pontificia Accademia per la Vita, Microsoft, IBM, FAO e dal Ministero dell’Innovazione, parte del Governo italiano, a Roma, per promuovere un approccio etico all’intelligenza artificiale.

    Da tecnici e manager, dobbiamo tradurre questi principi in azioni concrete in grado di valutare e mitigare i rischi dell’antropomorfismo algoritmico.

    Call to Action per il Management: Audit, Misura e Strategia

    L’antropomorfismo algoritmico non è una moda passeggera, ma un fattore strutturale nella competizione digitale. Come leader tecnologico, la vostra responsabilità non è fermare questa evoluzione, ma governarla per trasformarla in un vantaggio competitivo sostenibile.

    La strada da percorrere è complessa e richiede un impegno costante, ma i benefici di una gestione proattiva superano di gran lunga i rischi di un approccio reattivo.

    Domattina svegliatevi e provate a fare queste azioni concrete sui sistemi IA della vostra azienda:

    Avviate un audit interno: occorre mappare tutti i sistemi IA con interfacce umanizzate e valutare il loro allineamento con le normative emergenti (es. AI Act europeo). Non basta una persona: occorre un team multidisciplinare che includa legali, eticisti e tecnici. Si può partire con un semplice questionario per valutare il livello di antropomorfismo e i rischi associati, compilare un Excel può essere un buon inizio, ma sicuramente non basta.

    Create le giuste KPI: chiedete ai vostri responsabili di prodotto e data science di sviluppare e tracciare KPI specifici per i rischi dell’antropomorfismo: possiamo governare solo quello che siamo in grado di misurare. Pensate a metriche come il “Trust Score” degli utenti, il tasso di errori legati a malintesi emotivi o il numero di incidenti legali correlati all’uso di IA umanizzate.

    Preparate un piano che non tratti l’etica dell’IA come un costo, ma come un investimento fondamentale per la resilienza del brand, in grado di creare valore e non danno per l’azienda.

    L’era della macchina empatica è iniziata. Le aziende che sapranno bilanciare innovazione tecnologica e responsabilità etica costruiranno un vantaggio competitivo duraturo, basato sulla fiducia dei clienti e sulla sostenibilità del modello di business. Le altre rischiano di trasformare un asset strategico in una passività costosa.

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    Matteo Baccan

    Matteo Baccan è un ingegnere del software e formatore professionista con oltre 35 anni di esperienza nel settore IT. Ha lavorato per diverse aziende e organizzazioni, occupandosi di progettazione, sviluppo, testing e gestione di applicazioni web e desktop, utilizzando vari linguaggi e tecnologie. È anche un appassionato divulgatore e insegnante di informatica, autore di numerosi articoli, libri e corsi online rivolti a tutti i livelli di competenza. Gestisce un sito internet e un canale YouTube dove condivide video tutorial, interviste, recensioni e consigli sulla programmazione. Attivo nelle community open source, partecipa regolarmente a eventi e concorsi di programmazione. Si definisce un "sognatore realista" che ama sperimentare, innovare e condividere le sue conoscenze e passioni, seguendo il motto: "Non smettere mai di imparare, perché la vita non smette mai di insegnare".

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