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Nel mondo della tecnologia, ci sono mosse che fanno rumore per ciò che rappresentano, più che per ciò che sono nel dettaglio.
L’acquisizione di “io” – il progetto segreto guidato da Jony Ive, ex Chief Design Officer di Apple – da parte di OpenAI e Sam Altman è uno di questi momenti.
Non è solo un’operazione industriale. È un manifesto strategico. Un avviso ai naviganti, soprattutto a chi guida aziende tech in Italia.
Vediamo perché.
Che cos’è “io”: più di un device, una visione
Il progetto “io” (nome non confermato ufficialmente) nasce dalla collaborazione tra Jony Ive e OpenAI, con l’obiettivo di ripensare l’interazione uomo-macchina nell’era dell’intelligenza artificiale generativa. In pratica: se l’iPhone ha definito l’interfaccia dell’era mobile, “io” vuole ridefinire l’interfaccia dell’era AI.
Non si tratta di uno smartphone, né di un gadget. Si parla di un “personal AI companion”, un assistente sempre attivo e integrato nella vita quotidiana, capace di interagire vocalmente, anticipare bisogni e creare un ponte naturale tra intelligenza artificiale e esperienza umana. L’idea, evidentemente, è che l’AI non si debba solo “usare”, ma “vivere”.
Questo dispositivo – su cui ha lavorato anche LoveFrom, lo studio di Ive, e che potrebbe integrare tecnologia Humane o strumenti simili – è pensato per diventare l’interfaccia dominante in un mondo post-smartphone. Per questo, Altman ha investito centinaia di milioni di dollari nel progetto, attirando designer, ingegneri e esperti di interaction design.
Perché è una svolta strategica per OpenAI
Questa mossa ha una portata strategica enorme per OpenAI. Non solo rafforza la posizione di leadership sull’intelligenza artificiale generativa, ma sposta il baricentro: da modello software a esperienza completa, che include anche l’hardware.
In sostanza, Altman non vuole più solo che usiamo ChatGPT da browser. Vuole che ChatGPT sia il nostro assistente sempre presente, integrato nella nostra vita, come lo è oggi lo smartphone. Ma più invisibile, più naturale, più umano. Un compagno, non uno strumento.
Questo avvicina OpenAI a un modello Apple-style, dove il controllo sull’interazione passa anche dall’hardware. Ed è un modello che rende l’AI embedded, non più opzionale.
Cosa significa tutto questo per i tech leader in Italia
Per chi guida aziende tech in Italia – CTO, CIO, founder e imprenditori digitali – questa acquisizione è un campanello d’allarme, ma anche una bussola.
1. Il futuro non è (solo) software. È esperienza
Pensare che basti integrare un’API di AI nei propri prodotti per “essere innovativi” è un’illusione. L’esperienza d’uso dell’AI sarà sempre più nativa, fluida, multi-sensoriale. E la differenza non la farà la tecnologia sottostante, ma la capacità di disegnarla attorno all’essere umano.
Design, interaction, contesto. Questo è il nuovo campo da gioco.
Per chi sviluppa prodotti digitali in Italia, la domanda è: stiamo ancora progettando schermate, o stiamo già progettando interazioni?
2. L’interfaccia è potere
Come ha dimostrato Apple con l’iPhone e ora OpenAI con “io”, controllare l’interfaccia significa controllare l’ecosistema. Non basta costruire modelli di AI, serve creare il canale con cui l’utente li vive.
Per molte aziende italiane, questo significa ripensare radicalmente UX, UI, architettura informativa, ma anche ridefinire le figure professionali coinvolte nello sviluppo dei prodotti. Serve un cambio di mentalità, non solo di tool.
3. L’AI embedded sarà lo standard
L’AI non sarà più una feature. Sarà l’infrastruttura cognitiva del prodotto.
Questo implica che ogni impresa che sviluppa software – soprattutto nel B2B – dovrà spostarsi da AI come optional a AI come core layer. Dai recommendation engine agli agenti autonomi, fino a nuovi paradigmi di customer support, analisi predittiva e gestione operativa.
Per i tech leader italiani, il rischio non è solo restare indietro. È non vedere la curva che sta arrivando.
Implicazioni per startup e PMI italiane
Non si tratta solo di OpenAI o di colossi globali. Il vero impatto si vedrà nelle catene del valore locali.
Chi oggi crea prodotti digitali per il made in Italy, per i distretti industriali, per il settore sanitario, finanziario o assicurativo, dovrà anticipare l’ondata. Non basta integrare ChatGPT in una chatbot o usare Copilot per scrivere codice: bisogna ripensare il prodotto alla luce di una nuova grammatica tecnologica, dove l’AI diventa il linguaggio principale.
Cosa fare subito:
- Formare i team non solo su AI, ma su interaction design e UX con AI embedded.
- Investire in prototipazione rapida per testare interfacce nuove (vocali, multimodali, a prompt).
- Attivare una visione strategica di prodotto: non si compete più su funzionalità, ma su esperienze potenziate.
- Collaborare con ecosistemi più ampi, come quelli legati a community tech (es. Tech Mastermind) o alle nuove piattaforme AI-native che stanno emergendo.
Un segnale ai pionieri del digitale italiani
Il progetto “io” è ancora avvolto nel riserbo, ma il messaggio è chiarissimo: il prossimo salto tecnologico non sarà una nuova app, ma un nuovo modo di vivere la tecnologia.
E chi guida oggi team tech e aziende digitali in Italia ha davanti due strade. Restare fermi ad aspettare che arrivi nelle mani del pubblico. Oppure iniziare a costruire da subito la prossima generazione di prodotti AI-native, partendo da una domanda semplice ma potente:
Come sarà il mio prodotto quando l’interfaccia non sarà più uno schermo, ma un’intelligenza?
Per chi vuole ragionare in questa direzione con altri tech leader italiani, consiglio di parlarne all’interno del Tech Leaders Club o ascoltare le interviste ai protagonisti dell’innovazione nel podcast Pionieri del Tech.