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Trasformazione digitale: mito o realtà?
Nel panorama italiano, si parla molto di trasformazione digitale, ma troppo spesso lo si fa in modo astratto, decontestualizzato. La realtà quotidiana degli IT Manager è invece fatta di sistemi customizzati, resistenze culturali, risorse limitate, roadmap non realistiche e aspettative fuori scala.
A raccontarlo in modo diretto e senza filtri è Alessandro Pescetti, IT Manager con oltre 20 anni di esperienza in ambito pharma, impiantistica e oggi nel settore metalmeccanico, dove guida il team IT di Dulevo International, azienda del gruppo francese Fayat.
Nel corso dell’intervista per il podcast Pionieri del Tech, Pescetti condivide una visione onesta, pragmatica e al tempo stesso ambiziosa di cosa significa davvero portare innovazione tecnologica all’interno di contesti industriali consolidati.
Un IT manager con il coraggio di dire “fermi tutti”
“Quando entri in azienda, tutti ti chiedono il nuovo gestionale, il nuovo CRM, il nuovo PLM”, racconta Pescetti. “Ma nessuno vuole lavare i piatti sporchi”. È questa forse l’immagine più efficace del debito tecnico: quell’accumulo di codice, processi e sistemi obsoleti che l’azienda si porta dietro spesso da anni, e che non si ha il coraggio di affrontare.
Ma il debito tecnico, come quello finanziario, genera interessi. Ogni modifica urgente, ogni compromesso per rispettare una scadenza, ogni progetto senza documentazione adeguata crea un costo che qualcuno, prima o poi, dovrà sostenere.
Ed è qui che l’IT diventa davvero strategico: non solo perché propone nuove soluzioni, ma perché protegge il business da se stesso, quando tende a sottovalutare le fondamenta su cui si costruisce il futuro.
Il valore nascosto dei progetti IT
Uno dei passaggi più illuminanti dell’intervista riguarda la difficoltà di misurare il ritorno economico dei progetti IT. “Non tutto è immediatamente monetizzabile”, spiega Pescetti. “Ci sono progetti che migliorano il brand, aumentano la fiducia dei clienti, rendono scalabile l’azienda o ne migliorano la percezione come partner tecnologico”.
Valori che raramente compaiono nei fogli Excel di un CFO, ma che fanno tutta la differenza tra un’azienda che si evolve e una che rimane ferma.
Spesso la trasformazione digitale viene ancora confusa con la semplice digitalizzazione di un processo. Ma la vera sfida, dice Pescetti, è ridefinire i processi stessi, creare nuove modalità operative, abilitare persone e reparti a lavorare in modo diverso. E per farlo serve il contributo di tutti, non solo dell’IT.
Le vere barriere? Cultura, tempo, riconoscimento
Un tema ricorrente nell’intervista è la resistenza al cambiamento. “Molti utenti sono sovraccarichi, ricoprono più ruoli, hanno priorità urgenti. È difficile coinvolgerli davvero in un progetto di trasformazione”. E spesso l’IT non viene visto come un partner strategico, ma come un reparto che deve “cambiare il sistema e farlo funzionare subito”.
Questo porta a un cortocircuito: il business delega all’IT, che però non ha né il tempo né il mandato per ricostruire processi sani. Il risultato? Sistemi bellissimi che nessuno usa davvero. Progetti avviati con entusiasmo che falliscono in fase di adoption. Roadmap piene di deliverable, ma vuote di significato.
Sperimentazione e leadership moderna
Ma non è tutto grigio. C’è anche spazio per un IT più sperimentale, più umano, più consapevole. “Nel mio team cerco di garantire tempo per esplorare strumenti nuovi”, spiega Pescetti. “Un IT efficace deve essere almeno un passo avanti all’utente medio. Se non conosciamo gli strumenti che l’azienda potrebbe usare, non possiamo guidare davvero l’innovazione.”
Qui emerge anche un’idea interessante di leadership: il manager non solo come stratega, ma come facilitatore di apprendimento continuo. Un approccio che prevede test, prove, errori, conversazioni. Non “progetti da Gantt”, ma percorsi di crescita del team e dell’intera azienda.
La lezione finale: l’IT va riconosciuto, non solo caricato
Alla fine, il messaggio più potente che arriva da questa conversazione è uno: il cambiamento non si fa da soli. Non basta che l’IT proponga. Serve che il business ascolti. Che ci sia tempo, fiducia, budget, coinvolgimento.
E serve soprattutto una visione: quella di un IT che non è più “back office”, ma leva competitiva, partner nella crescita, guida nel cambiamento. Un IT che ha il coraggio di fermare l’urgenza, mettere ordine, lavare i piatti prima di cucinare il futuro.
Il debito tecnico si paga, prima o poi. Ma con la giusta strategia, può diventare un’occasione per ripartire su basi solide.
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